Beng Maelea, lo stagno del Loto, è un altro tempio da non perdere. Siamo ad una quarantina di km a nord-est di Siem Reap, poco più di un’ora di macchina.
Filippo è lì, che col suo nuovissimo ukulele pagato 6 dollari americani, intona per tutto il viaggio in macchina, Yard of blond girls, di Jeff Buckley, e registrando anche un video con il nostro amico Sven. Se ci penso ancora rido per l’associazione di questo nome piuttosto nordico, con la nostra guida: un omino dagli occhi a mandorla, esile e simpatico. Sembra poco più che ventenne a guardarlo, ma in realtà sposato con una splendida ragazza, e già con un paio di figli all’attivo.
Finalmente siamo al tempio. Visitarlo è un’arrampicarsi continuo tra le rovine avvolte dal verde della jungla. Il Bayon e Angkor Wat sono templi magnifici e imponenti, ma anche questo tempio, seppur completamente distrutto, testimonia ancora con le sue rovine, tutta la sua antica maestosità.
La maggior parte degli enormi blocchi di pietra giacciono ormai a terra, caduti chissà da quanto tempo, coperti da un sottile strato di muschio verdissimo. Gli alberi dalle folte chiome, svettano altissimi, impedendo al sole di illuminare, l’intera area. Soltanto qualche raggio di luce riesce a passare, creando degli effetti ottici semplicemente unici e indescrivibili. Le rovine hanno un’estensione larghissima, ci accorgeremo solo alla fine di aver passato un’intera giornata a salire sugli altissimi colonnati e passare dentro dei cunicoli, che sembrava potessero crollare da un momento all’altro. Ci sentivamo come Indiana Jones, proiettati dentro un luogo surreale, dentro un videogame, dove eravamo liberi di muoverci nelle tre dimensioni, saltando da un muro all’altro, e camminando sull’orlo dei colonnati a dieci metri da terra. Strani animali simili a enormi tassi, si aggiravano correndo e nascondendosi tra i mucchi di massi intorno a noi, ma che non ci danno il tempo di fotografarli per la loro velocità.
Cinesi tutt’intorno a noi! Improvvisamente ci accorgiamo che non era un’invasione di formiche quella che vedevamo, bensì un’intera colonia di cinesi, che avevano invaso l’area. In ogni scena, in ogni foto che scattavamo c’era almeno uno di loro che rovinava il ritratto. Nel giro di 10 minuti ci trovavamo mischiati in una calca di gente, nemmeno fossimo alla sagra dello sconto di un centro commerciale. Si fermavano davanti a noi, rubandoci lo scatto migliore. E noi decidiamo di fare di meglio. Da lì a dieci minuti eravamo su tutte le loro foto, facendo quello che loro avevano fatto con noi. Saltando dentro ai loro scatti come Paolini, e rovinando ogni loro momento immortalato. Era ormai una missione la nostra.
Anche se rimanevamo all’ombra, il caldo ci stava consumando. Eravamo disidratati, fradici di sudore, ed eravamo ormai lì da ore, da perderne il conto. Sapevamo solo di avere fame e dovevamo bere qualcosa, immediatamente, pena, morte certa! (si, sono esagerato, lo so).
Fuori dal tempio si svolgono i campionati del mondo di “bargain”, ovvero contrattazione del souvenir all’ultimo sangue. Per la verità non sono bravo a contrattare, per cui, per questa volta mi affido a Filippo, attuale detentore del record di contrattazione. Leggende narrano che una volta un venditore lo ha pagato per dargli un souvenir. Ma di questo ci occuperemo in un capitolo a parte.
Ci interessavano i dipinti, che a decine invadevano le bancarelle. I dipinti sono bellissimi, sono la cosa più significativa che puoi riportarti a casa da un viaggio. Non hanno un gran valore commerciale probabilmente, ma sono densi di significato, dipinti da mani che vivono in quei posti. Come per osmosi, quei dipinti assorbono il sapore e le tonalità di quella terra.
Quindi ne approfitto per acquistare qualche regalo da riportare in Italia. Il più bello era senza dubbio il ritratto di un bambino, dai lineamenti palesemente asiatici, nascosto tra le canne di bambù. Il verde ed il giallo primeggiavano, dando ancora più risalto al viso scuro del bambino.
All’uscita ripercorriamo una lunga strada sterrata, dove dei bambini intenti ad imparare i numeri in inglese ci fermano e ci chiedono caramelle (che purtroppo non avevamo). Tutt’intorno cartelli rossi e tabelle ovunque, ad indicare zone minate. Si perché la Cambogia è anche questo, è un vasto terreno, dove una quarantina di persone ogni anno muoiono, e altrettante restano mutilate per colpa delle mine, disseminate vigliaccamente da cani senz’anima, che a distanza di generazioni, ancora uccidono.
Ormai è sera, e siamo seduti davanti ad un localino nella strada principale di Siem Reap. Notiamo una ragazzina di 10-12 anni al massimo, che vende braccialetti ai turisti. Delle ragazze californiane, dai connotati asiatici, chiacchieravano e ridevano con lei.
Notiamo la sua capacità di parlare inglese perfetto, il suo gran sorriso, e la sua intelligenza. La sentiamo parlare di come aveva imparato l’inglese, chiacchierando con i turisti, e raccontando aneddoti simpatici della sua vita. Ci intromettiamo nel discorso e subito ci accorgiamo che è un’autentica forza della natura. Ci dà lezioni di economia e su come vendere bracciali ai turisti, ci racconta dei vari tipi di turisti che incontra, delle loro nazionalità, e fa delle grandiose caricature di ogni turista di ogni nazione. In breve ci guardiamo con le americane, e ci sentiamo presi per il culo. Scoppiamo a ridere, perché la ragazzina è una fottuta fuoriclasse.
Infine ci racconta che la Cambogia è un bellissimo paese ma che da grande vorrebbe scappare per avere una vita migliore, e che nel frattempo per vivere, ci deve rifilare (ha usato lei questo termine) i braccialetti. Lei non va a scuola, ma è di una rapidità incredibile nell’eseguire i calcoli, ha una risposta per tutto, è di un’intelligenza incredibile. E se ne va tra gli applausi del pubblico, con almeno 15 dollari americani, frutto della vendita di braccialetti a noi e alle ragazze americane. Chapeau per lei.
Scoliamo le nostre birre, e ce ne andiamo a letto, frastornati più per il cabaret messo in piedi dalla ragazzina che per le birre bevute.