Strani ricordi in quella nervosa notte a Las Vegas. Sono passati cinque anni? Sei? Sembra una vita. Quel genere di apice che non tornerà mai più. San Francisco e la metà degli anni sessanta erano un posto speciale ed un momento speciale di cui fare parte. Ma nessuna spiegazione, nessuna miscela di parole, musica e ricordi poteva toccare la consapevolezza di essere stato là, vivo, in quell’angolo di tempo e di mondo, qualunque cosa significasse. C’era follia in ogni direzione, ad ogni ora, potevi sprizzare scintille dovunque, c’era una fantastica, universale, sensazione che qualsiasi cosa facessimo fosse giusta, che stessimo vincendo. E quello, credo, era il nostro appiglio, quel senso di inevitabile vittoria contro le forze del vecchio e del male, non in senso violento o cattivo, non ne avevamo bisogno, la nostra energia avrebbe semplicemente prevalso, avevamo tutto lo slancio, cavalcavamo la cresta di un’altissima e meravigliosa onda. E ora, meno di cinque anni dopo, potevi andare su una ripida collina di Las Vegas e, se guardavi ad ovest, e con il tipo giusto di occhi, potevi quasi vedere il segno dell’acqua alta, quel punto, dove l’onda infine si è infranta ed è tornata indietro. (Paura e delirio a las Vegas)
Eravamo fermi ad un semaforo sulla Strip con la nostra Mustang cabrio rossa bordeaux, in attesa del segnale verde. Ripercorrevamo scene di film già visti, ed ascoltavamo alla radio Shawn Colvin – Viva Las Vegas. È curioso, questa canzone compare nei crediti finali del Grande Lebowsky, ma sono sicuro che nel film questa versione non è presente.
Non avevamo meta, avevamo come unico piano quello di aggredire la notte. Volevamo fare un salto ai casinò, e a vedere i magnifici hotel della via. Avevamo appena superato il Caesars palace, il Luxor, il Bellagio; sapevamo che la notte sarebbe stata lunga. Ci siam fermati al Venetian, e dopo poco abbiamo conosciuto Benny, un simpatico barman che lavorava in uno dei bar all’interno della gigantesca struttura. Ordiniamo due tequile, e Benny fa un’eccezione, brindando insieme a noi.
Indossavamo le nostre cravatte in legno, meticolosamente prodotte da un nostro amico. Un’idea più che bizzarra, eppure spopoliamo tra la gente che ci ferma incuriosita.
Anche Benny era stupito dalle nostre cravatte, riempiendoci di domande. In breve un gruppetto di persone si era radunato intorno a noi incuriosito. Cerchiamo di defilarci, non ci piace stare troppo al centro dell’attenzione in un posto che non conosciamo. Sotto di noi c’era la ricostruzione del canal grande di Venezia. Tra i canali del fiume artificiale, un gondoliere trasportava due turisti, e cantava O’ sole mio, in un italiano piuttosto azzardato.
Las vegas è un parco giochi per grandi; è una città che non muore mai, è il delirio di giorno e di notte. E noi eravamo proprio nel nervo principale.
Il nostro sogno californiano era appena cominciato, e già ci eravamo mimetizzati tra le centinaia di turisti che invadono questo grande luna park. Non vedevamo l’ora di sfoggiare le nostre magliette personalizzate per l’occasione. Ci avevo lavorato un giorno intero, ma alla fine erano perfette. Le facce di Raul Duke e del Dr. Gonzo avrebbero fatto invidia a chiunque. Torniamo sulla strip, ancora con i nostri drink in mano, maldestramente coperti in un sacchetto di carta. Passeggiavamo lungo la via illuminata, quando una macchina si ferma al semaforo, poco lontano da noi. Era una Mustang cabrio blu, del tutto simile alla nostra. A bordo 3 ragazzi, poco più che ventenni, probabilmente europei, stavano vivendo il nostro stesso sogno. Rombavano con l’auto al semaforo, e il loro stereo strillava a tutto volume Summer of 69 di Brian Adams.
Seduti su un muretto al lato della strada, eravamo immersi in un grande dejavu. Vedevamo le macchine fermarsi e ripartire, anche loro protagonisti della grande utopia americana. Il castello stava inesorabilmente crollando, e forse, a pensarci bene, chissà se quel sogno era ancora vivo? Forse era ormai solo un malinconico ricordo, soffocato dal conformismo del nostro nuovo secolo e dalla tv.
Avevamo lo slancio, eravamo pervasi dalle vibrazioni, eppure si erano già impossessati del nostro sogno, che a dirla tutta, forse non era mai stato nostro. Non ci rimaneva che salire, fin su la collina, e guardare ad ovest, per osservare anche noi quel segno, ormai ben visibile dell’acqua alta, dove l’onda alla fine si è infranta e ritornata indietro.