Sono convinto che è solo grazie all’adrenalina se siamo arrivati fino in Nepal, viaggiando in macchina lungo tutta l’India del nord. Oggi ripenso alla strada fatta, e mi vengono in mente mucche assonnate lungo la via, ripenso alle manovre improvvise dell’autista per evitare le buche, alla gente che dormiva lungo il ciglio, al driver che guidava contromano in piena notte perché l’altra corsia era occupata dai pellegrini, al guado del torrente, alle strade strettissime e i precipizi sotto di noi. Noi eravamo lì, immersi in quell’insolito scenario. Avvicinandoci al Nepal ci affacciavamo dai finestrini, e intorno a noi il paesaggio si colorava di verde, per la bella e folta vegetazione che si infittiva. file infinite di pellegrini e monaci camminavano silenziosamente lungo la strada, carri coloratissimi e gente truccata a bordo che sfilava festeggiando delle divinità induiste, i tramonti erano bellissimi e sempre carichi di saturazione, i bambini all’ombra di grandi palme ci salutavano mentre con la macchina continuavamo lungo la nostra strada. Improvvisamente i pensieri e gli aspetti negativi si allontanavano dalla mia testa, l’adrenalina dell’avventura mi faceva focalizzare solo sugli aspetti belli del viaggio, facendomi dimenticare la scomodità di un viaggio di sei ore in un pulmino che sfrecciava su stradine bianche, sfruttando ogni centimetro di strada, fino al bordo del precipizio.
Il bello del viaggio è che quando torni a casa, sfinito, butti lo zaino a terra e ti stendi a rivivere tutte le emozioni vissute.
Le emozioni poi si arricchiscono di particolari, perché a volte si ha necessità di metabolizzare il tutto e ripercorrere le tappe mentalmente con più lucidità.
Il sole già picchiava, e le cinque-sei ore di bus per arrivare a Pokhara ci avevano annebbiato un po’. I finestrini erano completamente aperti e l’aria bollente ci sbatteva in faccia, ma il fantastico panorama compensava il forte caldo.
Siamo arrivati in città tra le feste delle caprette che pascolavano liberamente nel piazzale del parcheggio.
I tratti delle persone erano visibilmente cambiati rispetto all’India. Gli occhi erano più tagliati e più piccoli, i lineamenti erano più rotondi e la carnagione diversa. Anche i modi di vestire erano totalmente differenti. Intorno molti bambini giocavano, e ovunque incrociavi con gli occhi i volti sorridenti della gente locale. Un piccolo gruppetto di cani randagi, saranno stati 4-5, giravano per il quartiere svogliatamente, alla ricerca di un riparo dal sole e qualcosa da mangiare. Il più simpatico aveva un orecchio girato, e si fermava di tanto in tanto per provare a smuoverlo con la zampa e farlo tornare in posizione. Per questo motivo rimaneva lontano dal gruppo, così, ripartiva, senza aver rimesso a posto l’orecchio per non rimanere troppo indietro. Il paesaggio si riempiva di corsi d’acqua; sotto di noi scorreva già un bellissimo fiume, e anche se era molto al di sotto di noi, si intuiva la sua grande forza. Non c’erano strade o per attraversare il fiume. Piuttosto, c’erano delle funi e dei cavi di acciaio, che lo attraversavano perpendicolarmente,e tramite un sistema di carrucole una grande gabbia appesa si muoveva da una parte all’altra del fiume trasportando persone e animali.
Nei casi migliori, alcuni ponti tibetani permettevano anche il passaggio di muli da soma e biciclette, sempre carichi di materiali.
Sul ciglio della strada si vedevano sporadicamente piante di canapa, dalle fronde foltissime e alcune grandi come alberi.
Una delle cose più belle dei viaggi è osservare la strada e il paesaggio intorno a te. È bello guardare fuori dal treno o dal bus e vedere la vita di quel posto che ti passa davanti. È come vedere un film ti fa conoscere molti aspetti di quei posti che nelle città poi non ritrovi.
Pokhara è come te l’aspetti e come te la descrivono. È fresca di mattina, di quell’aria pura filtrata dagli alberi, quella che pizzica nel naso quando la respiri a pieni polmoni. La città sorge sul grande Phewa lake, siamo a oltre 800 metri sul livello del mare. Sullo sfondo spicca la grande catena bianca dell’Himalaya e le maestose cime dell’Annapurna, anche se da qua si vedono appena, perché coperte dalla collina qui di fronte.
A pensarci bene, per un attimo ho la sensazione di trovarmi lungo le sponde del lago Trasimeno, quando l’aria è ancora calma di mattina, ed il rumore assillante delle macchine ancora non disturba.
Giro un paio di hotel per trovare una sistemazione dignitosa ma comunque economica, e riesco a spuntare un prezzo di 10$ a notte per una camera con l’aria condizionata. In realtà la corrente va e viene, ed il piccolo gruppo di continuità di emergenza non sembra essere di grande garanzia. Sfruttiamo il momento, e mettiamo in carica macchine fotografiche e telefonini che già eravamo riusciti a scaricare, seppur ancora mattina, facendo video e fotografie qua e là.
Una delle cose belle del Nepal è la carne. A differenza della maggior parte dell’India (dove trovi praticamente soltanto pollo), qua mangiano carne bovina. Non che io sia un grande mangiatore di carne in realtà, perché odio gli allevamenti intensivi occidentali e lo spreco, ma i nostri fisici sono stati messi a dura prova dai precedenti dieci giorni in India, e sento davvero il bisogno di ingerire proteine. Credo di aver già perso oltre 5 kg, che in un tempo così breve si fanno sentire tantissimo. La stanchezza è quindi ormai una costante, e dopo esserci riposati seriamente, ci rifocilliamo in una graziosa locanda della città.
Passeremo il resto della serata davanti ad una birra ghiacciata raccontandoci storie, pianificando il seguito del viaggio verso la magica valle di Kathmandu (sembrava lo sketch della pubblicità del Montenegro, e noi che dovevamo portare in salvo l’antico vaso).