Anno Domini 2016. Siamo io e Valentino, vecchi compagni di università a pianificare questo nuovo giro di giostra, tra i migliori paesaggi e città della Malesia. Partiremo da Singapore per poi sconfinare in Malesia, arrivando alle Isole Perhentian, e poi ancora a ritroso verso Malacca, Penang e Kuala Lumpur. Passeremo per alcune città fantasma, panorami polverosi e lunari, poco frequentati, che rimangono nei pensieri come ricordi foschi sfuggendo a una piena memoria fotografica che possa descriverli.
10 agosto 2016 – Singapore
Il volo infinito, così potrei definirlo. Il nostro viaggio verso Singapore inizia da Roma, passando per gli incastri di Doha e Phuket, scali ampiamente studiati e programmati per non spendere una fortuna. Quatar Airways è una garanzia, ci permette di stare tranquilli e non temere possibili ritardi, cosa che riscontro sempre più spesso con le altre compagnie aeree. Un viaggio di tutto comfort: abbiamo a disposizione i migliori film su un bellissimo display 10″ per passare il tempo. Le hostess e gli stewart, tutti gentilissimi, passano regolarmente per il refill del nostro vino, e il cibo è imbattibile.
Singapore è quanto di meno mi sarei aspettato da una città asiatica. Non somigliava nemmeno un po’ alla caotica Bangkok, né ad una delle decine di altre città visitate nel sud est asiatico. Per la verità di asiatico non ha davvero nulla. Sarò banale. Sembra una comunissima metropoli ipertecnologica occidentale, dove i grandi palazzi e le luci al neon della sera ricordano vagamente una Las Vegas asettica.
È sera. I rumorosi traghetti passano lenti lungo il fiume principale carichi di turisti, che scattano foto verso di noi sulle sponde, sovrastati dagli enormi e luminosi palazzi.
Davanti a noi, un folto e tecnologico gregge di pecore: camminano lenti, tutti nella stessa direzione, con le teste piegate verso il telefono. Sono giovani e anziani, gente di tutte le età, impegnati a cercare tramite l’app installata sui loro telefoni, degli inesistenti personaggi dei Pokemon. “Aberrante” è l’unica parola che mi è passata per la mente. Avrei molti pensieri a riguardo, ma credo li terrò per me. Davanti a noi, in fondo alla lunga via centrale di Singapore, svetta il maestoso Marina Bay Sands, un altissimo Resort casinò. Probabilmente uno dei più famosi di tutto il sud est asiatico. Ne avevamo visto le foto online e sembrava valesse la pena farci un salto, su fin l’open bar all’ultimo piano per ammirare la fantastica piscina a sfioro sul tetto. Il nostro abbigliamento non proprio in linea con il “dress code” della serata non ci impedisce di entrare.
Non senza difficoltà riusciamo ad orientarci nella immensa hall e a trovare l’ascensore che ci porta fin lassù. L’ingresso è libero, e tra i vari stewart al desk, ci accoglie una ragazza, probabilmente sui 32, pelle vellutata come una pesca, capelli lisci sul castano chiaro, lunghi a metà schiena, e un fisico invidiabile da molte, tacco rigorosamente 12. Fatichiamo per non strabuzzare gli occhi, per quanto è notevole, ce li saremmo cavati volentieri se ce lo avesse chiesto. In realtà facciamo finta di nulla, non ci va di fare la solita figura degli italiani caciaroni e fastidiosi. Ci accompagna al nostro al tavolo e la lasciamo con un grande ma discreto sorriso che ricambia volentieri.
Seduto su un comodo divano, gusto il mio White russian, che è davvero notevole; anche il cocktail al Martini di Valentino non scherza. Il salone è immenso, e siamo seduti sulla vetrata che punta all’intero skyline della città. Roba da brividi. Intorno, luci laser, club music al volume ideale e un ambiente non troppo affollato ci fanno sentire a nostro agio. «Ci spostiamo alla piscina all’esterno?» – Propongo dopo qualche minuto. Eravamo storditi dai dettagli del posto, ma del resto, non ci saremmo aspettati di meno per le decine di foto che avevamo visto in giro. La piscina è davvero la fine del mondo, e faremmo volentieri un bagno, di quelli da film americano, dove poggi il cocktail a bordo vasca e ti godi la festa. Ovviamente la piscina è riservata ai soli ospiti, e noi stronzi possiamo soltanto rosicare.
12 agosto – Malacca
Non ricordo come ci siamo finiti, ma era comunque nel programma che ci eravamo prefissati. Malacca fu una città di scambi, il risultato di continue influenze e colonie. Non ne conosco bene la storia, lo ammetto, ma si notano stili incongrui, e disomogenei nell’architettura, che paradossalmente non mi disturbano. Anzi, nella mia testa la ritrovo simile ad una Londra che amo, dove convivono fianco a fianco incredibili e frenetici grattacieli di vetro della city, e palazzine classiche in un riconoscibilissimo stile monarchico british. È un piccolo surrogato di Istanbul invece, se penso alla cultura così varia che può contare quella città. Anche se, d’accordo, l’influenza cinese fa da padrona indubbiamente.
I locali notturni sembrano quelli dei navigli, e i “push-in” (i camerieri che procacciano e cercano di attirare la clientela verso il locale) non ci trovano mai impreparati ad accettare l’invito. Gustiamo per la serata una Tiger ghiacciata, che il sud est asiatico sa sempre offrire in qualsiasi bettola tu possa trovarti.
Siamo solo di passaggio, e per i giorni seguenti la nostra destinazione sono le isole Perhentian, dove abbiamo intenzione di fermarci a ricaricare le batterie per tutta la settimana. Il viaggio notturno sul treno, attraversando la Taman Negara non ci entusiasma. Ci aspettavamo di vedere del finestrino la foresta più antica del mondo, attraversandola con un lento treno come quelli dei film degli anni 60. Le distese di palme da olio invece, sono state l’unico panorama che scorreva attraverso i finestrini, per centinaia di chilometri. Bad trip.
Perhentian islands – Qualche giorno dopo
Delle due isole, Pulau Kecil è quella che ci ispira e non ci priva della birra, cosa che non concede invece Pulau Besar, con la sua cultura islamica più radicata. Inizialmente la scelta stava quasi per ricadere su Rendang poco più a sud. Poi però ho dirottato la scelta di Kecil anche grazie alla Giulia “Wonder” che pure pianificava lì il suo soggiorno, imbeccandomi anche qualche dritta risultata poi davvero utile. Avevo trovato sull’isola la scuola di immersioni che cercavo, e tutto sembrava perfettamente organizzato.
È qui che quello “step” di gradimento del viaggio si alza (il viaggio che si trasforma in vacanza). Le giornate le trascorrevamo in assoluto ozio, tra un immersione e una lezione per me. Valentino, ustionato dal sole cocente al primo giorno per lo snorkeling, ha probabilmente battezzato l’isola come sua nemica. Posso solo ricordare vagamente quel poco di sollievo che l’estratto di aloe gli concedeva. I pomeriggi erano iperattivi per me, sempre di ritorno eccitato dalle mie immersioni a 18mt. Il briefing iniziale e quello finale erano sempre illuminanti: dapprima si discuteva dell’immersione, e al ritorno dei pesci osservati, annotandoli sul nostro diario delle immersioni. Il corso full time era ben fatto, la nostra istruttrice non ammetteva errori, ed anche provando ad essere molto puntigliosa e severa, non aveva appigli con me che proseguivo il corso senza particolari intoppi. I fondali erano un mondo nuovo, pieno di nuove creature sottomarine orientate al blu. Le sensazioni erano nuove, ed il fisico era appagato da continui sprazzi di adrenalina. Sarà poi perché magari sono già abituato alle tre dimensioni per via del parapendio, ma mi sentivo a mio agio in quest’elemento, in una modalità tutta nuova. Mi vedo già proiettato in un futuro non poi così lontano nelle forti correnti di di Sipadan, a nord del Kalimatan settentrionale, immergendomi tra squali, mante e banchi di barracuda scintillanti.
Tutte le sere, la pioggia si presentava puntuale alle 20:00. Uno sgrullone di pochi minuti che arrivava minaccioso all’orizzonte, e così se ne andava, lasciando un minimo di refrigerio che ci permetteva di respirare. Enormi e interessanti bruchi (giusto per puntigliosità erano dei Trabala vishnou) cadevano dalle palme, di un giallo talmente acceso che non osavamo toccarli per paura fossero irritanti a contatto con la pelle.
Con il crepuscolo si alzava il fumo dei barbecue, e le piccole barche di legno dei pescatori tornavano alla spiaggia dopo una giornata di pesca, attraccando a pochi metri dalla riva. Pochi minuti per contrattare il pesce con i ristoratori della spiaggia e subito la gente si accalcava ai tavoli dei pochi ristoranti a disposizione. L’aria era di festa, e non poteva essere altrimenti, “sperduti” in un posto dove i sorrisi dei locali non erano ancora pienamente contaminati dalla globalizzazione di altri posti. Ho come l’impressione che vi fosse una sorta di equilibrio, dato anche dal fatto che l’isola era già satura di turismo al punto giusto, e non saprei immaginarla con più persone, se non rompendone quell’equilibrio che sembrava mantenerla in una bolla, rispetto ad altre isole molto più gettonate del sud est asiatico. «Il sapore del pesce al barbecue è fenomenale. Ci spariamo un’altra birra?» Risposta scontata di Valentino, che già faceva cenno al giovane ristoratore di portarci altri due boccali di Tiger. Il gatto del posto, sornione passava tra i tavoli, come per ringraziare degli avanzi che di lì a poco avrebbe avuto per lui. Se rinasco voglio essere gatto in quella spiaggia. Avrei a disposizione una vita a pancia in su, con cibo gratis, i grattini dei turisti e un’immensa lettiera di sabbia, dove fare i bisogni al chiarore del tramonto.
La notte era pazzesca, l’intera costa ovest dell’isola si trasformava in una feroce pista da ballo, dove musica trance, rock, e indie locale si mischiavano creando una sorta di tracciato osceno, che in quel posto sembrava aver invece un senso. I fuochi sulla spiaggia, i giocolieri, i mangiafuoco e la gente che girava con vari braccialetti al neon mi facevano tornare in mente il Full Moon di Koh Phangan. In fondo era una formula che funzionava bene. La birra scorreva a fiumi, rendendo simpatico anche il vecchio pazzo che girava per l’isola (c’è sempre un vecchio pazzo, o che crediamo tale).
Una settimana rigenerante e inaspettatamente intensa. Per poi partire finalmente verso Penang e Kuala Lumpur. Eravamo soltanto a metà dell’opera.